L’eventualità concreta di nuovi dazi sulle importazioni di vino italiano negli Stati Uniti non è soltanto un nodo diplomatico da sciogliere: è un segnale d’allarme strategico. Negli ultimi anni, molte aziende vinicole hanno legato gran parte del loro sviluppo economico al mercato americano, diventandone strutturalmente dipendenti. Questa esposizione oggi si rivela rischiosa: bastano poche modifiche fiscali per mettere in discussione la marginalità, la sostenibilità e in alcuni casi la sopravvivenza stessa di intere filiere produttive.
Quando l’export diventa dipendenza
Inseguendo margini apparentemente più semplici da ottenere, molte imprese hanno progressivamente disinvestito nel mercato interno ed europeo, percepiti come saturi o troppo complessi. Il mercato statunitense è stato spesso affidato completamente a distributori locali, perdendo così il controllo su aspetti essenziali come il posizionamento del brand, la narrazione di marca e il valore percepito dal consumatore finale.
Oltre la crisi: una fragilità sistemica
La questione dei dazi non è solo un’urgenza contingente: è il sintomo di una fragilità più ampia, che deriva da un modello commerciale sbilanciato e poco lungimirante. Un modello che ha trascurato la diversificazione dei mercati, l’investimento nei canali diretti, e lo sviluppo di nuove aree ad alto potenziale come l’Africa sub-sahariana o il Sud-est asiatico. Questa miopia strategica ha prodotto un’esposizione unilaterale che oggi si sta rivelando pericolosamente fragile.
È tempo di un nuovo paradigma per il vino italiano
Il vino italiano, forte di una tradizione millenaria e di un patrimonio culturale straordinario, merita oggi un nuovo progetto industriale e commerciale. Le eccellenze non bastano più: serve una strategia capace di valorizzare il prodotto lungo tutta la filiera, adottando linguaggi contemporanei e approcci compatibili con i nuovi stili di vita dei consumatori.
Questa trasformazione richiede visione, investimenti e una pianificazione di marketing capillare. Non basta “essere presenti” all’estero: bisogna conoscere i mercati, costruire relazioni, parlare ai consumatori, presidiare i canali e difendere attivamente il proprio posizionamento. I dazi possono essere un ostacolo, ma anche una scossa positiva: un’occasione per rimettere in discussione abitudini e modelli ormai superati.
Ripensare la strategia di go-to-market
Il cambiamento non può essere solo reattivo. Occorre una revisione complessiva del go-to-market: serve una struttura più solida, flessibile, diversificata. Più canali, più mercati, più segmenti.
Le aziende devono rivedere le loro scelte commerciali e distributive: non solo promozione o storytelling, ma azione commerciale competente e continua, che sappia costruire relazioni con buyer, attivare leve promozionali efficaci, presidiare i punti vendita e interpretare in tempo reale le evoluzioni della domanda.
Rimettere al centro il mercato italiano
Il mercato interno — e più in generale quello europeo — non è un’alternativa di ripiego. È una base strategica per costruire valore duraturo. Oggi più che mai occorre tornare a investire nei canali locali con intelligenza, competenza e visione.
In concreto, questo significa:
- Gestire con efficacia la presenza nella GDO, negoziando listini coerenti con la segmentazione assortimentale;
- Rafforzare la rete HoReCa e Cash&Carry, con linee dedicate e politiche commerciali stabili;
- Sviluppare l’e-commerce diretto e indiretto, curando il racconto, l’identità visiva e la logistica;
- Valorizzare la rete dell’ingrosso, coinvolgendo i grossisti come veri partner strategici;
- Potenziare la vendita diretta e l’accoglienza in cantina, integrando hospitality, racconto esperienziale e fidelizzazione.
La differenza la fa la forza vendita
Una strategia multicanale è inutile se manca un’azione commerciale strutturata, competente e costante. Non bastano agenti di passaggio o presidi occasionali. Servono professionisti formati, motivati, capaci di costruire relazioni nel tempo con buyer e interlocutori chiave.
Il vero valore commerciale si costruisce nella coerenza del posizionamento, nella qualità percepita, nella capacità di offrire soluzioni che generano vantaggi per tutta la filiera: dal produttore al distributore, fino al consumatore finale.
Prodotto, racconto, mercato: una nuova coerenza
Il vino italiano ha bisogno di un racconto nuovo, che unisca qualità, cultura e valore economico. Una narrazione capace di riconnettere il prodotto con le persone, senza banalizzarlo né relegarlo a simbolo nostalgico del passato. Servono contenuti veri, esperienze concrete, identità riconoscibili.
È tempo di affermare una strategia integrata che sappia difendere la marginalità senza svendere il valore, che costruisca relazioni solide e continuità nella presenza sui mercati. Perché oggi, più che mai, non basta produrre un grande vino: bisogna anche saperlo vendere, raccontare, vivere.